NATALIA GINZBURG
ovvero
il grado zero della scrittura

di Susanna Casoni

La scrittura di Natalia Ginzburg sconcerta il grafologo. Come ci mostra l’esemplare alla pagina seguente - una lettera all’amico Carlo Levi scritta nel 1950 per conto della Casa Einaudi - la forma è puerile. “Il tratto è spasmodico, l’inclinazione variabile, il gesto grafico maldestro con interruzioni e ritocchi, la dimensione ineguale. La scarsa evoluzione della forma va di pari passo con alcune ricombinazioni, alcune lettere personalizzate ( la p in pince ) e alcuni ovali merlati, tutti segni di cultura. Le forme puerili sono da imputarsi ad una scarsa maturità affettiva, unita a semplicità dell’anima che non ricerca ostentazioni (1)". Ma, lungi dall’essere isolato, questo sconcerto del grafologo mi sembra assai affine a quello spesso provato di fronte alla sua opera e alla sua personalità dal critico letterario, a volte persino dall’amico. Andando alla ricerca delle impressioni sulla giovane Natalia che circolavano nella Torino della sua infanzia e adolescenza, troviamo che per alcuni era niente più che “una ragazzina timida, disadorna e spaurita, una creatura di Leone”, cioè del brillantissimo intellettuale e cospiratore antifascista Leone Ginzburg, uno dei fondatori della casa editrice Einaudi, che Natalia sposò nel 1938, a neanche ventidue anni. Da altri invece - per esempio Cesare Pavese - era conosciuta e apprezzata per il suo “limpido temperamento di maschiaccio senza peli sulla lingua”, “per l’ispida frontale drasticità dei giudizi” ( che tanto ben si rivela nell’angolosità della scrittura ). Altri ancora, trovandola indecifrabile, si affidavano all’opinione degli amici più stimati: “Natalia è strana ma deve avere un certo fascino: piace a Pav.”, scrive Giaime Pintor sul suo diario il 30 novembre 1941.

Quanto alla critica, Oreste Del Buono in “La finta tonta” considera la sua semplicità una posa, e un mero espediente letterario il suo atteggiamento non giudicante verso i personaggi: “E’ difficile trovare una finta tonta più finta di Natalia Ginzburg. La sua prima preoccupazione è di ostentare la sua ottusità.” E questa della ‘fintotontaggine’ sarà un’etichetta con cui a lungo la Ginzburg dovrà fare in qualche modo i conti. Ma certo. Non esiste forse visione della vita e dell’arte che si presti in Occidente a maggiori equivoci e sordità di quella centrata “sull’autenticità, sulla povertà di spirito evangelica, sull’amore e la pietà creaturale, su un relativo disinteresse per l’intelligenza che ordina e distingue (2)". Che sia un limite assoluto, oppure - come credo - un peculiare modo di rapportarsi al mondo che vale la pena esplorare, è sorprendente quanto questa ‘fintotontaggine’ rievochi la specie grafica ‘puerile’. Secondo Gille Maisani, “chiamiamo puerile la scrittura di un adulto istruito che appare come se fosse stata tracciata da un soggetto la cui età non sembrerebbe superare gli anni dell’infanzia o dell’adolescenza. (…) Spesso si tratta di soggetti intelligenti e colti, che hanno conservato però più o meno l’animo di un bambino (per esempio mancanza di esperienza nelle questioni pratiche, ingenuità negli affari, incompleta maturità affettiva, resti di timidezza, ecc.)” (3) Le considerazioni che seguono vogliono solo essere un’amplificazione della specie grafica ‘puerile’, per far sì che si apra a ventaglio sui molteplici sensi che mi sembra avere nella personalità di questa scrittrice così particolarmente inquietante.


Uno sfondo su cui collocare il discorso ce lo può offrire Roland Barthes quando ci segnala in Letteratura l’esistenza di una Forma che lega lo scrittore alla sua società, da vedere come terza dimensione indipendente dalla Lingua - territorio orizzontale comune a tutti gli uomini di una stessa epoca -, e dallo Stile - espansione verticale della mitologia personale e segreta del singolo scrittore. E’ in questa realtà formale o Scrittura che l’autore si impegna moralmente operando una scelta; “la scrittura è una funzione: essa è il rapporto tra la creazione e la società, è il linguaggio letterario trasformato dalla sua destinazione sociale.” E, ripercorrendone le vicissitudini storiche, a partire dall’unità della scrittura classica, dietro a cui c’è una Natura “piena, comprensibile, senza fughe né ombre”, passando poi attraverso la grande rottura intorno al 1850, da cui nasce la coscienza tragica dello scrittore borghese e la sua ricerca di riscatto nel lavoro artigianale di costruzione della forma, arriviamo infine a quella scrittura neutra, innocente che Barthes chiama di grado zero. “Questa Parola trasparente, inaugurata dallo Straniero di Camus, realizza uno stile dell’assenza che è quasi un’assenza ideale dello stile; (…) il pensiero salva così tutta la sua responsabilità, senza rivestirsi di un accessorio impegno della forma in una Storia che non gli appartiene (4).”

Non mi interessa qui tanto sottolineare quanto perfettamente questo discorso si addice alla scrittura letteraria di Natalia Ginzburg, con la sua tormentata consapevolezza del rapporto fra questa Scrittura e la Storia; mi interessa invece mettere in evidenza come l’assenza di presenza narrativa della Ginzburg scrittrice trova un sorprendente riscontro in quella che, con Klages, potremmo chiamare assenza di rappresentazione nella sua grafia. Sembra qui mancare totalmente ciò che Klages chiama Leitbild, immagine ‘anticipatrice’, l’”attesa, consapevole o meno, di un certo risultato grafico, che porta a modellare la scrittura in funzione dei propri obiettivi o ideali (5).” Che è come dire che alla Ginzburg non importava un bel niente dell’immagine che dava di sé. E’ in questo spazio dell’assenza che prende corpo la ‘puerilità’ di Natalia Ginzburg, non come un ‘minus’, una mancanza, ma al contrario come un mezzo per raggiungere gli obiettivi esistenziali più importanti per lei.

Va detto anzitutto che l’archetipo Fanciullo non si manifesta qui nelle note sembianze del puer aeternus mercuriale, con i suoi voli verticali, la sua impazienza, la sua autosufficienza narcisistica. Ci riporta semmai più indietro, a quella magica fase aurorale dell’infanzia, prima della costituzione dell’ego narcisistico, quando l’io e il mondo erano ancora prossimi all’unità, e l’interiorità e l’esteriorità si compenetravano in una nebbiolina trasognata, “e da ciò che si guardava non ci si sentiva separati, anzi si seguiva la curva dei colli, l’ombra più parca o più densa, come se fossero stati dei movimenti psichici, dei sentimenti appena appena esternati (6).” Questa intimità commossa con le cose, questo vibrare in consonanza dona all’infante una straordinaria capacità empatica. E’ a questa posizione di confine che aspira ritornare l’artista, con in mano il pennello, la penna o lo spartito. “Per l’occhio infantile il visibile è sempre intessuto di un’invisibile trama di segni dell’anima, tracce dello sconosciuto, richiami ad un senso ulteriore.” A chi la possiede, la sensibilità infantile “consente da una parte una totale arrendevolezza di fronte al destino, dall’altra una compassione cosmica (7).” Che sono appunto le due modalità di rapporto col mondo più peculiari di Natalia Ginzburg: la pietas verso le cose e l’accettazione stoica del dolore e della gioia allo stesso titolo:

amare la vita e crederci vuol dire anche amarne il dolore; vuol dire amare il tempo in cui siamo nati e le sue voragini di terrore; e vuol dire amare, del destino, la sua oscurità e la sua tremenda imprevedibilità. E’ tuttavia ancora vero che su un simile pensiero non si può forse costruire nulla; non essendo per verità un pensiero costruttivo, ma una sorta di fuoco che ciascuno accende in solitudine e per conto suo (8).

Nella sensibilità infantile senex e puer non vivono ancora separati: “Nella Ginzburg i songs of innocence nascono sempre, immediatamente, come songs of experience (9).” Il segreto della sua intelligenza ‘diversa’ e ‘scandalosa’ (10) sta forse proprio in questa sua saggezza infantile che pone “le domande elementari e inesorabili dei bambini”, ma quando risponde, risponde “con la voce tranquilla e ferma degli adulti (11).” Abbiamo dunque incontrato fin qui il ‘puerile’ come via alla compassione, all’accettazione del destino e alla saggezza.


Leone e Natalia Ginzburg appena dopo il matrimonio

Ma sul dolore bisogna ancora ritornare. Perché la vita di Natalia Ginzburg si situa a un crocevia funesto in cui il destino individuale incontra la Storia d’Europa, con il fascismo, la guerra, la persecuzione razziale. Leone Ginzburg, che nel 1932 aveva fondato la cellula torinese di Giustizia e Libertà e nel ’34-’36 aveva già fatto due anni di carcere, nel 1940 viene mandato al confino a Pizzoli in Abruzzo. Natalia lo segue con un bambino di un anno e mezzo e un altro di pochi mesi; lì scriverà il suo primo romanzo e lì nascerà la terza figlia. Nel luglio ’43, con la caduta di Mussolini, Leone si trasferisce a Roma, dove Natalia lo raggiunge in ottobre; in novembre lui viene arrestato e trasferito nel braccio tedesco di Regina Coeli dove morirà nel febbraio ’44 per le torture. In questi tre mesi di prigionia, mai la moglie e i figli avranno la possibilità di rivederlo. Fino alla Liberazione, Natalia, che ha ora ventotto anni, fugge nascondendosi con i tre bambini di casa in casa, di città in città. Dal ’45 comincia a lavorare, fra Torino e Roma, nella redazione di Einaudi, con cui continuerà a collaborare a tempo pieno fino al ’55 e poi di nuovo dal ’77 all’83. Nel 1950 sposa l’anglista e musicologo Gabriele Baldini, da cui avrà altri due figli che nascono con gravi malformazioni; il secondo sopravviverà solo per un anno. Nel 1969 Gabriele Baldini muore all’improvviso per un’epatite virale; aveva quarantanove anni. Dal 1983 la Ginzburg è deputata alla Camera per gli indipendenti del PCI. Muore a Roma l’8 ottobre 1991 (12).I colpi del destino si abbattono su una personalità già fondamentalmente tormentata; e di tutto questo tormento la sua scrittura ci parla (13). L’impostazione spaziale compatta assomiglia a una tana: “Io mi ero scavata, in quella casa, la mia tana. Era una tana dove, quando ero triste, mi rimpiattavo come un cane malato, bevendo le mie lagrime, leccando le mie ferite. Ci stavo dentro come in una calza vecchia (14).” La tenuta di riga ricorda le tanto detestate escursioni in montagna che il collerico padre imponeva a tutta la famiglia, dove si cammina con scarpe grosse su un terreno infido, perché “la realtà (…) è irsuta e ispida, impervia, fitta di circostanze incontrollabili, di reazioni che è impossibile prevedere (…) sfuggente e comunque estranea ad ogni lindo e disciplinato disegno (15).” Quanto alle code di volpe, seguendo le varie ipotesi di Gille Maisani, mi sembra subito da escludere, nella schiva Natalia, “sfacciataggine, cattivo gusto”, invadenza; da sottolineare invece “natura depressiva con mancanza di fiducia in sé quando il segno risulta stabile; disperazione se è accentuato”; ma ancor più “il timore di lasciare spazi bianchi (16)”, nel senso qui - mi pare - di ansia difensiva nei confronti del futuro, delle cose terribili che potrebbero ancora succedere, in un contesto dove il senso di colpa è molto presente (17): ”Essere noi stessi ci sembra una colpa peggiore d’un assassinio, e da ogni parte ci viene dichiarato che per una simile colpa non c’è assoluzione. Risorge in noi l’antica disperazione dell’adolescenza, quando abbiamo capito a un tratto che eravamo chiamati a essere diversi e felici ma noi eravamo incapaci di ubbidire a un simile richiamo (18).”Riprendendo a declinare la nostra specie grafica ‘puerile’, altre suggestioni ci provengono dal rapporto con Cesare Pavese, che mentre le affida alla Einaudi compiti di sempre maggior responsabilità, viene maturando nei suoi confronti un’antipatia via via più acida e stizzosa. ”La mia crescente antipatia per N. viene dal fatto ch’essa prende per granted ( scontato ), con una spontaneità anch’essa granted, troppe cose della natura e della vita. Ha sempre il cuore in mano - il cuore muscolo -, il parto, il mestruo, le vecchiette. Da quando B. ( Felice Balbo ) ha scoperto che lei è schietta e primitiva, non si vive più.”, scrive nel suo diario il 5 febbraio 1948. La semplicità della Ginzburg è intollerabile per chi come lui è andato convincendosi dell’assoluta inconciliabilità tra se stesso e la vita; e a tale convinzione è arrivato attraverso il pensiero della tragicità, “che consiste nel fatto che un valore non si concilia con un altro (19)”; e contro questa tragedia nulla può nessuna semplicità. Il suicidio improvviso di Pavese è del 27 agosto 1950. E’ un suicidio compiuto per un distorto uso dell’intelligenza, per insensato calcolo, secondo la Ginzburg, che alla sua memoria dedicherà lo straordinario Ritratto di un amico, scritto nel 1957 in occasione di un triste ritorno a Torino per la morte della madre; e ancora bellissime pagine altrove, ma soprattutto darà tratti di lui a molti suoi personaggi. “Non riuscivamo a dirgli che vedevamo bene dove sbagliava: nel non volersi piegare ad amare il corso quotidiano dell’esistenza, che procede uniforme, e apparentemente senza segreti. Gli restava dunque, da conquistare, la realtà quotidiana; ma questa era proibita e imprendibile per lui che ne aveva, insieme, sete e ribrezzo; e così non poteva che guardarla come da sconfinate lontananze (20).” Incontriamo qui il ‘puerile’ come fedeltà al dato originario dell’esistenza colta nel suo svolgersi quotidiano.Un po’ come l’ipotetico Pinocchio ebraico che, secondo il calzolaio di Montediddio, “si chiamerebbe Iòsl e resterebbe di legno per tutta la vita per fedeltà al suo creatore (21)”,così Natalia Ginzburg non è psicoanalizzabile. Ha fatto bensì un tentativo di pochi mesi, a Roma, nell’estate del ’45. E l’analista che si è scelto non è certo uno preso a caso: è il grande Ernst Bernhard, capostipite della scuola junghiana in Italia, traghettatore, fra l’altro, delle immagini animiche di Federico Fellini che noi ci godiamo sullo schermo. Il rapporto si incrina dopo pochissimo tempo per via di un sogno dai colori vividissimi, in cui sua figlia stava annegando e lei la salvava, e sulla riva c’era sua madre con un gran cappello di paglia. Quando il dottor B. le dice che nel sogno sua madre rappresenta la sua femminilità passata e sua figlia la sua femminilità futura, la Ginzburg si infuria: “gli dissi che non era possibile che i sogni sempre fossero dei simboli, che io avevo sognato proprio mia figlia e mia madre e non rappresentavano un bel niente, semplicemente avevo nostalgia di loro.”


Natalia Ginzburg prima del 1970

Ha buon gioco Aldo Carotenuto nel supporre che Natalia Ginzburg “non abbia afferrato il senso della sua esperienza e che la sua ‘ingenuità’ tante volte presentata come un merito, almeno in questo caso, le abbia fatto perdere qualcosa di veramente prezioso (22).” Ma è più interessante per noi mettere in luce ciò che lei assolutamente non vuol perdere: che è la concretezza dei volti, dei passi, dei gesti, delle voci. La sua collera di fronte a una pur così bella interpretazione nasconde il timore angoscioso che l’astrattezza del simbolo la proietti a incommensurabili distanze, da cui non le sarebbe più stato possibile guardare, accarezzare, ascoltare. E dire che il grande Bernhard il registro narrativo della sua paziente l’aveva capito benissimo, se - come lei ancora ci racconta - un giorno che gli aveva confessato di provare un senso di inferiorità perché non riusciva mai a piegare le coperte con simmetria, “uscì un attimo dallo studio e tornò con una coperta, la piegò tenendola sotto il mento e volle che anch’io provassi a piegarla. La piegai e per compiacenza gli dissi che avevo imparato, ma non era vero (23).”

Incontriamo qui il ‘puerile’ come fedeltà alla materia, alla concretezza dell’esperienza e degli affetti. Cesare Garboli mette in luce nelle opere della Ginzburg una sorta di struttura a “uovo”, centrata su “l’impatto della Ragazza con il mondo (…) ( l’Altro, il Maschio ).” E’ un urto atteso e sospirato, per insofferenza e odio verso la tana originaria, senza rendersi conto che il bisogno fondamentale è di ricomporla quella tana, “di costruirsi la tana propria, dove venire alla luce, generare sé stesse, e, insieme a sé stesse, i propri figli.” Alla base di questa struttura c’è “un imbroglio”, c’è il contrapporsi di due tendenze opposte, “di sfida e di scommessa verso il mondo, e di paura e di regressione verso la tana.” Ambivalenza, questa, che il grafologo ben registra nel ‘tiraillé’ della scrittura. Se analizziamo qual è il posto dell’uomo nel mondo ginzburghiano, vediamo che ne è escluso a livello spirituale, per assoluta indifferenza nei confronti delle sue conquiste nella corsa ‘occidentale’ verso la civiltà; ma è recuperato e ridotto al livello fisiologico di padre. E’ ancora Garboli a notare come la stessa foga impiegata dalla Ginzburg per consacrare l’idea familiare, è usata da lei a partire dagli anni ’70, gli anni di piombo, per distruggere, fare bellamente a pezzi la famiglia ormai deserta di padri (24).

Tutti abbiamo, credo, nel corso della nostra esistenza, venerato e sognato dei padri; e li abbiamo inconsciamente legati a quella poltrona, a quel giornale, e ad una in qualche modo altera lontananza dalle minuzie quotidiane (…) Erano attributi, se si vuole, del tutto imbecilli, però il fatto è che al posto di quella immagine c’è oggi il vuoto. (…) è scomparsa la protezione paterna, la presenza d’un pianeta distratto, ambiguo, alto, misterioso, e diverso da noi. E’ diventato impossibile sognare un padre. Deserto di sogni di padre, l’universo appare orfano e disorientato (25).

E mi sembra anche che questa visione, post-’68 e rivoluzione femminista, sia dalla Ginzburg riproiettata all’indietro nel secolo scorso, quando, in quell’originalissima opera che è La famiglia Manzoni, pubblicata nel 1983, il centro della scena è occupato dal sacrificio della moglie e dei figli per mantenere in vita uno statuto paterno continuamente minacciato dalle latitanze del grande Alessandro, esile padre assente. Fra l’altro, un’accattivante interpretazione postmoderna dell’americana Laurence Pastore attribuisce proprio alla perdita dell’autorità paterna lo stile non autoritario della Ginzburg verso i suoi personaggi (26). Incontriamo qui il ‘puerile’ come fedeltà alla tribù patriarcale.

Ma sarebbe, a mio avviso, del tutto fuorviante rinchiudere dentro le pareti domestiche il rapporto fra la puella Natalia e il complesso paterno. E’ nella sua tutta individuale e assolutamente anticonformista, precocissima e inesorabile vocazione letteraria che si incarna il suo legame con il compito spirituale creativo del padre. Quel mestiere di scrivere “che è un padrone, un padrone capace di frustarci a sangue, un padrone che grida e condanna. Noi dobbiamo inghiottire saliva e lagrime e stringere i denti (…) e servirlo. Servirlo quando lui lo chiede.” Ma è anche l’unico mestiere che la fa sentire “in patria” (27) ( attenzione: dice ‘in patria’, nella terra del padre, non ‘a casa’, come ci saremmo potuti aspettare da lei ). Tanto più che la sua precocissima vocazione letteraria nasce fin dall’inizio da una congiunzione di etica ed estetica. C’è un piccolo saggio, scritto dalla Ginzburg a diciassette anni, che comincia così: “Dire la verità. L’artista che scrive deve sempre sentirsi capace di questo.” E finisce così: “Dire la verità. Solo così nasce l’opera d’arte” (28). E’ buffo pensare che il suo indistruttibile padre, Giuseppe Levi, biologo di fama internazionale, maestro di Rita Levi Montalcini, morto a novantatre anni discutendo di biologia, rosso di capelli e di cuore, irascibile dispotico collerico, candidatosi alle elezioni del ’48 per il Fronte popolare, cominciò, fra lo sbigottimento generale, il suo unico comizio con l’affermazione :“La scienza è la ricerca della verità (29).”Incontriamo qui il ‘puerile’ come via al vero. Mi sembra che una scrittura come quella di Natalia Ginzburg mi avvicini alla comprensione di ciò che intende Roland Barthes quando dice: “La scrittura è, in definitiva, a suo modo, un satori; il satori ( l’accadere zen ) è un sisma più o meno forte ( per nulla solenne ) che fa vacillare la conoscenza, il soggetto (30).” Penso di capire, e al tempo stesso penso che questa esperienza si addice, appunto, a un maestro zen che ha liberi canali in noi occupatissimi. Noi, grati, ci accontentiamo di queste inquietudini.



1 - ANGELA MELE, Dispense del Corso triennale, Roma, CESGRAF, 1999, 1°, XVII, p.12
2 - DOMENICO SCARPA, Le strade di Natalia Ginzburg, Introduzione all’edizione del 1998 di NATALIA GINZBURG, Le piccole virtù, Torino , Einaudi, pp.IX-X, dove sono riportate anche le citazioni precedenti. Cfr. anche JUDITH LAURENCE PASTORE, The Sounds of Silence: the absence of narrative presence in Natalia Ginzburg’s La città e la casa, in “ Italian Culture ”, vol.XI, 1993
3 - JEAN-CHARLES GILLE MAISANI, Psicologia della scrittura, Napoli, Liguori, 1990, pp.175,178.
4 - ROLAND BARTHES, Il grado zero della scrittura ( 1953 ), Torino, Einaudi, 1982, pp.12 ,36, 56.
5 - PAOLA URBANI, Manuale di grafologia, Roma, Newton Compton, 1997, p.16.
6 - ELEMIRE ZOLLA, Lo stupore infantile, Milano, Adelphi, 1994, p.22.
7 - GIORGIO CONCATO, L’angelo e la marionetta. Il mito del mondo artificiale da Baudelaire al cyberspazio, Bergamo, Moretti & Vitali, 2001, p.245..
8 - NATALIA GINZBURG, Dell’aborto, in Non possiamo saperlo. Saggi 1973-1990, Torino, Einaudi, 2001, p.28
9 - DOMENICO SCARPA, op.cit., p.XIV.
10 - “Il primo scandalo della Ginzburg ( somma provocazione ) è l’innocenza separata dall’ingenuità (…) consiste nell’uso irritante di un’intelligenza ‘diversa’: un’intelligenza che viene articolata chiaramente, organizzata razionalmente quanto più ne vengono esaltati, al contrario, gli originari connotati primitivi e emotivi, le oscure e aggrovigliate premesse passionali.” ( Dal risvolto di copertina di CESARE GARBOLI a NATALIA GINZBURG, Vita immaginaria, Milano, Mondadori, 1974.)
11 - DOMENICO SCARPA, op.cit., p. XIV.
12 - Cfr. MAJA PFLUG, Arditamente timida. Natalia Ginzburg. Una biografia, Milano, La Tartaruga, 1997.
13 - “Natalia Ginzburg scrisse a penna – erano quasi sempre biro azzurre o nere – per tutta la vita, con una calligrafia nitida e angolosa che non cambiò granché nel corso dei decenni: al suo carattere infantile e insieme corsivo si sovrapposero negli ultimi anni un certo tremore nel disegno delle lettere ma anche una maggior energia – una maggiore convinzione – nell’incidere il foglio con la sfera della penna.” ( DOMENICO SCARPA in Note ai testi a NATALIA GINZBURG, Non possiamo saperlo, cit., p.186 )
14 - NATALIA GINZBURG, La casa, in Mai devi domandarmi, Milano, Garzanti, 1970, p.16.
15 - ID., Serena Cruz o la vera giustizia, Torino, Einaudi, 1990, pp.87-8.
16 - JEAN-CHARLES GILLE MAISANI, op.cit., pp.183-4.
17 - Cfr. ANNA DONDERO - MASSIMO REDAELLI, I complessi di colpa ed inferiorità. Modi dell’Io inconfortevole, CESGRAF, 2002.
18 - NATALIA GINZBURG, Estate, in Vita immaginaria, cit.
19 - Citato in DOMENICO SCARPA, Le strade, cit., pp.X-XII.
20 - NATALIA GINZBURG, Ritratto di un amico, in Le piccole virtù, Torino, Einaudi, 1962, p.32.
21 - ERRI DE LUCA, Montediddio, Milano, Feltrinelli,2001, p.67.
22 - ALDO CAROTENUTO, Jung e la cultura italiana, Roma, Astrolabio, 1977, p.145.
23 - NATALIA GINZBURG, La mia psicoanalisi, in Mai devi domandarmi, cit., p.64.
24 - Cfr. CESARE GARBOLI, Prefazione a NATALIA GIZBURG, Opere raccolte e ordinate dall’Autore, Milano, Mondadori, 1986-87, vol.I, pp.XIX-XX, XXVII-XXVIII.
25 - NATALIA GINZBURG, Donne e uomini, in Non possiamo saperlo, cit., p.91.
26 - Cfr. JUDITH LAURENCE PASTORE, op.cit., e ELENA MANETTI-ANGELA MELE, Il ruolo paterno fra mito, cultura e sentimento. Studi grafologici, CESGRAF, 2002.
27 - NATALIA GINZBURG, Il mio mestiere, in Le piccole virtù, cit., pp.72,86.
28 - Citato in DOMENICO SCARPA, Le strade, cit., p.VII.
29 - Cfr. MAJA PFLUG, op.cit., p.84.
30 - ROLAND BARTHES, L’impero dei segni (1970), Torino, Einaudi, 1984.

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